“Ripeti con me: non ti lamenterai
dei social media e non giudicherai le abitudini di una generazione che non
capisci”. Prendo in prestito un magistrale paragrafo da Roger Cohen
(International New York Times, martedì) per ricordare quanto sta accadendo.
Abbagliati da una certa comunanza di
strumenti (chi non sa cos’è un iPhone?) e una moderata vicinanza di gusti (a
chi non piacciono i Coldplay?), l’esercito dei papà e delle mamme - nato negli
anni ’50 e ’60 – dimentica che le generazioni rimangono distanti. E non si
possono capire fino in fondo. Ed è un bene che sia così. L’umanità cambia per
ribellioni e incomprensioni: se i figli facessero tutto quello che vogliono i
genitori, il mondo sarebbe indietro di secoli (nonché estremamente noioso).
Sembriamo incapaci di ammettere che
le società, come i bambini, crescono a strappi. La natura non farà salti, come
dice il proverbio; le donne e gli uomini, sì. Altri uomini e donne però
mugugnano, condannano, deprecano, s’allarmano. Ogni nuova invenzione – la
stampa, il telegrafo, il telefono, la radio, la televisione – ha suscitato
proteste. Quando venne introdotta l’anestesia (1846), molti vecchi chirurghi si
rifiutarono di utilizzarla: il dolore del paziente faceva parte del
trattamento. Anche la Chiesa, che quando si trattava di frenare non s’è mai
tirata indietro, si dichiarò contraria alla novità.
La storia della letteratura – da
Seneca e Scalfari, diciamo – è segnata da un anziano signore che passa dalla
rivoluzione alla riflessione, e bofonchia contro chi è diventato
rivoluzionario. Non stiamo parlando tanto di politica, quanto di tutto il
resto. La mia generazione, per esempio, ha imparato l’inglese, ha conosciuto
l’Europa, ha annusato l’America e ha attraversato l’età dell’oro sessuale: dopo
i contraccettivi, prima dell’Aids. Non facevamo cose folli; ma di certo non
erano le cose che immaginavano i nostri genitori.
Internet non è una semplice novità:
è un nuovo paradigma. Le ostilità che suscita sono, francamente, patetiche.
Quante cene tra cinquantenni sono segnate dalle geremiadi contro “questa
ridicola ossessione per smartphone e social network”? “Twitter-bashing bores”,
li chiama Cohen. Twitterofobi pallosi, traduco. Lo scrive uno che Twitter lo
ama e, forse, lo sa usare: ma solo quello, dove sfogo la mia passione
sintetica. So utilizzare Facebook, ma non riesco a capirlo fino in fondo. Non
uso Instagram, trascuro LinkedIn e Pinterest. Uso WhatsApp, ma ci riuscirebbe
un deficiente. Ho la mia età, diciamo: e va bene così.
Ieri ero a Bruges, al Collége
d’Europe; domani sarò a Bruxelles, all’Istituto Italiano di Cultura, dove
proverò a scuotere un po’ la generazione dei nostri figli (“Generazione
Erasmus: ma a voi importa dell’Europa?”). Non è una vendetta, è un
ringraziamento: perché loro hanno scosso (alcuni di) noi, per fortuna.
(dal Corriere della Sera)