"Gli sdraiati" di Michele Serra.
Il silenzio dei padri di fronte ai figli stesi sul divano
Nel libro i ragazzi di oggi
visti da un genitore tra humour, senso di impotenza e tenerezza. Il
conflitto tra vecchi e giovani ormai è finito: non ci sono ideologie, né
rabbia, lotta o rivolta
di MASSIMO RECALCATIIl padre di cui ci parla Serra attraverso il suo caso personale non nasconde affatto la paradossale "fragilità materna", la schizofrenica incarnazione dell'autorità che oscilla paurosamente tra la spinta a sgridare e quella a soccorrere, non cancella le contraddizioni del suo parlamento interno, abitato, come quello di tutti - come ricordava giustamente Gilles Deleuze ai rivoluzionari degli anni Settanta - da reazionari che invocano il ristabilimento repressivo dell'ordine. Questo nuovo padre non ha più a che fare con truppe di figli intimoriti dalla sua potenza titanica, né con figli ribelli che contestano la sua azione repressiva. Non si era mai vista prima una cosa del genere, commenta un amico di Serra preparandosi alla vendemmia in una bella mattina d'autunno mentre osserva i ragazzi che preferiscono trascorrere la mattina nei loro letti anziché unirsi ai "vecchi". "Non si era mai visto prima che i vecchi lavorano mentre i giovani dormono". Una mutazione antropologica, come direbbe Pasolini, sembra aver investito i nostri figli. Michele Serra la sintetizza come passaggio dalla posizione eretta a quella orizzontale: eccoli, gli sdraiati, avvolti nelle loro felpe e circondati dai loro oggetti tecnologici come fossero prolungamenti post-umani del corpo e del pensiero. Eccoli i figli di oggi, quelli che preferiscono la televisione allo spettacolo della natura, che non amano le bandiere dell'Ideale, ma che vivono anarchicamente nel loro godimento autistico, eccoli in un mondo dove "tutto rimane acceso, niente spento, tutto aperto, niente chiuso, tutto iniziato, niente concluso". Eccoli i consumisti perfetti, "il sogno di ogni gerarca o funzionario della presente dittatura, che per tenere in piedi le sue mura deliranti ha bisogno che ognuno bruci più di quanto lo scalda, mangi più di quanto lo nutre, l'illumini più di quanto può vedere, fumi più di quanto può fumare, compri più di quanto lo soddisfa".
Non si era mai visto niente di simile a questa generazione. Sia detto senza alcun moralismo, precisa Serra. Non è né bene, né male; è una mutazione, "è l'evoluzione della specie", come commenta suo figlio.
Gli Sdraiati è un libro tenerissimo dove la consueta ironia e la forza satirica che tutti amiamo in Michele Serra si alterna a momenti struggenti, ad una nostalgia lirica di rara intensità e alla bellezza pura della scrittura. Come quando descrive l'orizzonte metafisico delle Langhe o la resistenza commovente al vento e alla pioggia delle portulache sulla terrazza della casa del mare dei propri avi, o, come quando racconta con stupore la scoperta dell'abitudine del figlio ipertecnologico di raggiungere il tetto della scuola per guardare le nuvole, o quando lo descrive stravaccato sul divano indugiando sul suo volto addormentato che "contiene il suo addio agli anni dell'innocenza", o come quando, ancora, osserva stupefatto, nelle pagine finali del libro, il figlio oltrepassarlo sul sentiero di montagna del Colle della Nasca che egli dubitava avrebbe mai potuto percorrere sino in fondo.
La giovinezza si palesa innanzitutto nell'odore. Nei versetti dedicati a Giacobbe la Bibbia descrive soavemente l'odore del figlio come quello neutro di un campo. Nell'età della giovinezza, come i genitori sanno bene, questo incanto si rompe. Era stato facile amarli da piccoli, quando l'odore del loro corpo era quello del campo. Adesso invece il corpo sgomita. Una delle etimologie del termine adolescenza significa infatti arrivare ad avere il proprio odore. È quello che accade anche agli sdraiati. Il corpo fa irruzione sulla scena della famiglia con la sua forza pulsionale di cui i calzini puzzolenti che il padre raccoglie con pazienza e disperazione per casa sono una traccia emblematica. Questo corpo spinge alla vita. Ma spinge a suo modo. Senza ricalcare quello che è avvenuto nella generazioni che li ha preceduti. Gli sdraiati sembra facciano collassare ogni possibilità di dialogo. La parola non circola. Sembra vivano in un mondo chiuso allo scambio.
In Pastorale americana di Philip Roth l'impossibilità del dialogo tra le generazioni viene resa spietatamente attraverso le scelte del terrorismo e del fondamentalismo religioso compiute dalla figlia balbuziente per manifestare in questo modo la sua opposizione ostinata al padre. Niente del genere per Gli sdraiati di Serra. Il figlio non sceglie la via dell'opposizione ideologica, della lotta senza quartiere, della rabbia e della rivolta. Egli sembra piuttosto appartenere ad un altro mondo. Così lo guarda suo padre. Senza giudizio, ma come si guarda qualcosa di irraggiungibile, qualcosa che non possiamo governare. Per questo Serra invita le vecchie generazioni a porre fine allo loro assurda guerra che viene descritta - in una atmosfera oniroide alla Blade Runner - come uno scontro epico tra la moltitudine stremata dei Vecchi e la forza resistente dei Giovani.
Il condottiero dei Vecchi Brenno Alzheimer, alias Michele Serra, sa che la sua guerra è sbagliata, sa che è sbagliato odiare la giovinezza, guardarla con lo sguardo torvo e risentito da chi ormai ne è fatalmente escluso, sa che è sbagliato rifiutare la legge irreversibile del tempo. Brenno Alzheimer, diversamente dai padri ipermoderni che esorcizzano il passare del tempo come una maledizione, sa che sono i Giovani a dover vincere la guerra perché è "la bellezza che deve vincere la guerra. La natura deve vincere la guerra, la vita deve vincere la guerra. Voi giovani dovete vincere la guerra". Il segreto più grande nel rapporto tra le generazioni è quello di saper amare la vita del figlio anche quando la nostra inizia la fase del suo declino. Non avere paura del proprio tramonto è la condizione per la trasmissione del desiderio da una generazione all'altra. E non dispererei che le portulache che sono state oggetto di cura da tre generazioni nella terrazza della casa del mare - "la cura del mondo è una abitudine che si eredita", scrive Serra - possano trovare nello sdraiato, apparentemente indifferente allo spinozismo panteistico del padre, il loro giardiniere impossibile .
I nostri figli sdraiati, i padri capovolti
Michele Serra nell’ultimo libro fa il relativista sui valori etici e l’imperialista estetico Così aliena il ruolo di genitore e si disinteressa dei gusti culturali dei giovanissimi
E se l’«universo sconosciuto» di cui ha
scritto Barbara Stefanelli sul «Corriere della Sera» fossimo noi? Noi
padri, intendo, e non i nostri figli adolescenti che tanto
incomprensibili ci appaiono? E se, come in un racconto di fantascienza,
gli umani si rivelassero i veri alieni? Devo confessare che il dubbio mi
è venuto leggendo Gli sdraiati, l’ultimo libro di Michele
Serra (edito da Feltrinelli). Molto bello, e molto popolare a giudicare
dalle classifiche dei più venduti. E proprio per questo meritevole di
una buona polemica, perché lì dentro c’è un bel po’ di senso comune
della nostra generazione, di noi figli ribelli del baby boom, diventati
genitori obbedienti di figli perlopiù unici, e solitamente viziati.
Il fatto è che leggendo Serra, la lunga lettera di un padre a un figlio incomunicante, ho parteggiato per il figlio. E questo è grave, per un genitore. Insomma, l’ossessione del protagonista per la cura delle portulache sulla terrazza della seconda casa al mare, per il rito annuale della vendemmia del Nebbiolo nella seconda casa di un’amica nelle Langhe, e per la scalata di un fantastico quanto simbolico Colle della Nasca (presso il quale par di potere ipotizzare una terza casa), tutte magnifiche attività borghesemente colte, o coltamente borghesi, che il padre vorrebbe imporre al figlio come prova di maturità, e di amore del bello, e di pregnanza dell’esperienza umana, paiono noiose e stravaganti a me, figurarsi al figlio. Il quale, non a torto, se ne resta sdraiato e iperconnesso sul divano della prima casa, emulando i coetanei che su Twitter si sono battezzati indivanados per distinguere la loro pigra rivolta da quella più attiva degli indignados (e che temo che Serra si sia perso perché, come da lui dichiarato, ha rifiutato la frequentazione di Twitter, giudicato troppo banale con i suoi 140 caratteri).
Ma Serra e io siamo coetanei (anche se lui ricorda il suo Sessantotto di quattordicenne mentre io, allora dodicenne, no) siamo cresciuti vicini, abbiamo lavorato nello stesso giornale («l’Unità») e sospetto che abbiamo votato a lungo lo stesso partito. E allora, mi domando, che cosa è successo perché io sia finito dalla parte del figlio invece che del padre-narratore? Io penso si tratti di questo: quel padre dichiara di essere un «relativista etico», riluttante dunque a trasmettere valori, a cercare verità, a parlare del bene e del male; ma, forse per compensare, si comporta come un assolutista estetico, comicamente ostinato nel tentativo di trasmettere un’idea di buon gusto, uno stile di vita, una concezione del bello. Da parte mia sono invece giunto alla conclusione che sia meglio fare l’opposto, e che il fallimento genitoriale della nostra generazione (e se è per questo anche della sinistra dal cui alveo veniamo) nasca proprio dall’aver tentato di sostituire l’etica mancante con un’estetica intollerante. Penso che noi padri dovremmo ricominciare a essere «etici», lasciando in compenso in pace i nostri figli sull’estetica.
Mi stupisce per esempio che nel padre di Serra, così inorridito dalla generazione wireless, dagli iPad, gli iPod e gli iPhone, non ci sia mai curiosità su che cosa il figlio ascolta, legge, condivide; che il rifiuto del mezzo (online) conviva con una sostanziale indifferenza al messaggio. Questo ragazzo «sdraiato» studia? Legge, seppure su un ebook? Che musica ascolta, satanica o angelica? Crede in Dio o in qualche forma di trascendenza? Ama? Non si viene a sapere niente di tutto questo dal libro, probabilmente perché il padre narratore non lo sa, e forse non lo sa perché non gli interessa. Ciò che sommamente lo smuove è piuttosto come il figlio accartocci l’amato kilim, o dove e in che condizioni sparga i suoi calzini. Niente che non possa risolvere una brava colf, che sicuramente non mancherà con tutte quelle case in giro per mari e monti.
Ma anche tutta la confusione, e perfino l’odore che l’adolescente promana (del resto è perfino etimologico che un adolescente abbia odore), par di capire che sarebbero tollerati se solo il ragazzo una volta all’anno vendemmiasse il Nebbiolo, o una volta nella vita ascendesse il Colle della Nasca, cedendo così al gioco di potere del genitore. Perché, e questo è per me il punto chiave del libro, tutte queste cose non sono concepite dal padre come gusti personali, e pertanto discutibili: «Come farti capire — scrive disperato — che non è la mia vita, ma è la vita degli uomini quella della quale io sono un così impacciato testimone?».
Dunque l’esperienza del padre interpreta niente di meno che «la vita degli uomini». Il ragazzo che la rifiuta quindi nega la condizione umana. Come potrebbero non sentirsi degli estranei i nostri figli, di fronte a tanta siderale distanza, a questa dicotomia umano/non umano? Invece di cercare succedanei estetici all’autorità etica cui abbiamo rinunciato, dovremmo piuttosto parlare con loro della verità. Non per convincerli della nostra, o ancor meno per piegarli alla nostra (il Sessantotto è stato davvero utile da questo punto di vista, anche se in Italia è durato troppo, dieci anni, ed è finito nel sangue di Aldo Moro).
L’educazione non si impartisce, è la libertà di una persona che incontra la libertà di un’altra. Ma se noi non abbiamo niente da dire sulla verità, di che cosa pretendiamo di parlare con i nostri figli? Come potranno cercare la loro verità, magari diversa, forse opposta, se noi ne abbiamo paura? Perché ci dovrebbero ascoltare mentre ci crogioliamo nei nostri riti di borghesi arrivati e progressisti, che non hanno più niente di cui stupirsi e più nessuna novità cui aprirsi e ai quali la verità non interessa più, perché il nostro pensiero si è fatto debole, debolissimo, quasi inesistente? Forse abbiamo paura della libertà dei nostri figli; temiamo che la usino male, ma non abbiamo niente da proporre in cambio. Forse, da «adulti politicizzati», qualche volta li odiamo persino; perché, come ha scritto Gustavo Pietropolli Charmet, rimproveriamo loro «di non avere nessuna intenzione di intristirsi per le stolide e appassite ragioni» per le quali abbiamo inutilmente sofferto noi. Forse gli alieni siamo noi.
Antonio Polito
Il padre ha in progetto un grande romanzo (La Grande Guerra Finale): un di battito generazionale in una realtà che a breve sarà costituita da una maggioranza di ultrasettantenni con pannolone e Alzheimer, immagina che Brenno Alzheimer, l’autore stesso, simpatizzi col nemico, i Giovani appunto, e trami per l’affermazione di questi ultimi: questa sarebbe l’unica soluzione per uscire dal degrado sociale nel quale viviamo. Il dato più preoccupante è l’assenza di tempo interiore, quello che la vita scandisce, mentre il figlio dorme stravaccato di giorno, ma in quella posa al padre sembra di percepire un sapore che lo richiama all’infanzia, quando era facile amarlo, quando tutto scorreva nel migliore dei modi. Ora è tutto più difficile : le stature sono appaiate, le voci somigliano, gli ingombri dei corpi sono gli stessi.
Poi l’autore ricorda in analessi la sua infanzia, la sua separazione dai grandi, mangiava separatamente col fratello, quella separazione era vissuta piacevolmente come un’esenzione degli obblighi dei grandi.
Desiderio del padre è che il figlio lo segua in una passeggiata sul Colle della Nasca, quello sul quale passeggiava giovane con suo padre, il Colle sarebbe un punto di incontro generazionale e sarebbe bello che il figlio lo superasse in questa passeggiata assumendo una posizione eretta, mentre lo sdraiato questa volta sarebbe Brenno Alzheimer, alias Michele Serra….
Anche questo è totalmente freudiano: è proprio da questa consapevole accettazione che si può essere bravi genitori, con tutte le difficoltà del caso; facile e naturale è amare i propri figli da piccoli, il problema è dedicarsi a loro con tutta la pienezza dell’essere quando sono in adolescenza con i loro odori tipici: dai calzini puzzolenti alla ribellione esplicita, allo stare sdraiati invertendo i ritmi della natura. Ecco perché il padre vorrebbe portare il figlio su quel colle, per farlo riappropriare del suo sé profondo a contatto con la natura. La camminata su quel colle è un atto di amore dovuto di un padre verso il figlio e viceversa.
Michele Serra, caro figlio ti scrivo
Ma dove c... sei? Perché lasci squillare il cellulare
senza rispondere come un marito adultero o un’amante offesa? Inizia
così, con questo sfogo di bile (forse condiviso da molti genitori)
l’invettiva di un padre («borghese di sinistra») nei confronti del
figlio adolescente simbolo di una generazione refrattaria alle parole e
all’azione. Dialogo senza interlocutore, diario famigliare, lettera
aperta, satira di costume, persino romanzo fantapocalittico, gli Sdraiati è una lunga riflessione condita di ironia, sensi di colpa, amore, stralunamenti, sull’arduo mestiere della paternità postsessantottina.
Perché l’erede e i suoi coetanei rifiutano qualsiasi visione del mondo adulta? parlano per monosillabi o per protesi elettroniche? si svegliano ad ore indecenti sincronizzati con il fuso orario di Anchorage? vivono sdraiati e svogliati verso ogni dovere e fatica?
Papà Serra cerca risposte, oltre a levare lai. Colloquia con i professori, prendendo in giro se stesso e i parenti che sfilano nei corridoi scolastici; entra nei megastore delle felpe e del consumismo globale. Prova persino a coinvolgere il figlio, insieme all’amico, nel rito della vendemmia che stregava tanto i contadini al tempo di Botticelli quanto gli odierni adulti reduci di una sinistra svaporata, felici come pasque di cogliere acini in mezzo ettaro di vigna, levandosi all’alba per stupirsi con i colori dell’aurora, sudare e poi mangiare pane e salame in compagnia; ma il risultato è disastroso: quando i due «sdraiati» si svegliano indolenti e scazzati verso mezzogiorno chiedendo caffè per colazione ricevono reprimende dai grandi che, abbandonata l’indole libertaria, predicano rispetto per forme, orari, creanza. «A quest’ora qui si pranza», sentenziano stizziti, come avrebbe potuto dire Colette Rosselli alle giovani borghesi anni 60.
Ma per Serra che si dichiara «relativista etico» e che ha sempre cercato nell’educazione il consenso piuttosto che l’imposizione - non per pigrizia, né per debolezza, ma per naturale avversione al pensiero forte - non è il sintomo di una svolta autoritaria. Anzi, satirico e amaro al contempo, capisce quanto sia sciocco pensare che i figli preferiscano i filari d’uva all’iphone. La divergenza e il rifiuto son normali, quasi sacrosanti perché i giovani sono arrivati in un mondo troppo saccheggiato, e «pretendere di vedervi proseguire entusiasti lungo strade consumate da milioni di passi» sarebbe eccessivo.
Tutto il libro è scandito da uno strano mantra, prima suadente, poi convinto, implorante, fin minaccioso. Ogni dieci pagine il padre propone una gita al Colle della Nasca. «Dai, andiamoci insieme sarà stupendo», dice l’adulto ricordando quando c’era stato da bambino. Sicuro che mai l’eterno sdraiato, che fuma un pacchetto al giorno, che porta braghe col cavallo basso, scarpe larghe, avrà voglia e forza di inerpicarsi ai 3mila metri. Lui che pare sempre assente alle emozioni e così poco propenso alla fatica perché dovrebbe salire l’inutile colle? Già, perché? Il finale del libro fornirà una risposta di commovente bellezza a questa e tante altre domande che non riguardano più le scaramucce di Serra e di suo figlio senza nome. Perché su quel monte simbolico, da Abramo e Isacco in poi, ci saliamo tutti per sacrificare ruoli, compiti, convinzioni, e passarci il testimone nella staffetta della vita. E giunti in vetta, rispecchiandoci nell’ostilità dei figli, non possiamo che ammorbidirci, e persino perdonare le colpe dei nostri padri ricordando i figli che eravamo.
Anche Kafka, se si fosse riprodotto, avrebbe scritto una nuova lettera al padre, più indulgente, più sdraiata, conscio della parte che la natura ci obbliga (noi maschi) a interpretare sebbene sia arduo trovare un senso negli insegnamenti da tramandare in un mondo così insulso, feroce e irredimibile.
Il fatto è che leggendo Serra, la lunga lettera di un padre a un figlio incomunicante, ho parteggiato per il figlio. E questo è grave, per un genitore. Insomma, l’ossessione del protagonista per la cura delle portulache sulla terrazza della seconda casa al mare, per il rito annuale della vendemmia del Nebbiolo nella seconda casa di un’amica nelle Langhe, e per la scalata di un fantastico quanto simbolico Colle della Nasca (presso il quale par di potere ipotizzare una terza casa), tutte magnifiche attività borghesemente colte, o coltamente borghesi, che il padre vorrebbe imporre al figlio come prova di maturità, e di amore del bello, e di pregnanza dell’esperienza umana, paiono noiose e stravaganti a me, figurarsi al figlio. Il quale, non a torto, se ne resta sdraiato e iperconnesso sul divano della prima casa, emulando i coetanei che su Twitter si sono battezzati indivanados per distinguere la loro pigra rivolta da quella più attiva degli indignados (e che temo che Serra si sia perso perché, come da lui dichiarato, ha rifiutato la frequentazione di Twitter, giudicato troppo banale con i suoi 140 caratteri).
Ma Serra e io siamo coetanei (anche se lui ricorda il suo Sessantotto di quattordicenne mentre io, allora dodicenne, no) siamo cresciuti vicini, abbiamo lavorato nello stesso giornale («l’Unità») e sospetto che abbiamo votato a lungo lo stesso partito. E allora, mi domando, che cosa è successo perché io sia finito dalla parte del figlio invece che del padre-narratore? Io penso si tratti di questo: quel padre dichiara di essere un «relativista etico», riluttante dunque a trasmettere valori, a cercare verità, a parlare del bene e del male; ma, forse per compensare, si comporta come un assolutista estetico, comicamente ostinato nel tentativo di trasmettere un’idea di buon gusto, uno stile di vita, una concezione del bello. Da parte mia sono invece giunto alla conclusione che sia meglio fare l’opposto, e che il fallimento genitoriale della nostra generazione (e se è per questo anche della sinistra dal cui alveo veniamo) nasca proprio dall’aver tentato di sostituire l’etica mancante con un’estetica intollerante. Penso che noi padri dovremmo ricominciare a essere «etici», lasciando in compenso in pace i nostri figli sull’estetica.
Mi stupisce per esempio che nel padre di Serra, così inorridito dalla generazione wireless, dagli iPad, gli iPod e gli iPhone, non ci sia mai curiosità su che cosa il figlio ascolta, legge, condivide; che il rifiuto del mezzo (online) conviva con una sostanziale indifferenza al messaggio. Questo ragazzo «sdraiato» studia? Legge, seppure su un ebook? Che musica ascolta, satanica o angelica? Crede in Dio o in qualche forma di trascendenza? Ama? Non si viene a sapere niente di tutto questo dal libro, probabilmente perché il padre narratore non lo sa, e forse non lo sa perché non gli interessa. Ciò che sommamente lo smuove è piuttosto come il figlio accartocci l’amato kilim, o dove e in che condizioni sparga i suoi calzini. Niente che non possa risolvere una brava colf, che sicuramente non mancherà con tutte quelle case in giro per mari e monti.
Ma anche tutta la confusione, e perfino l’odore che l’adolescente promana (del resto è perfino etimologico che un adolescente abbia odore), par di capire che sarebbero tollerati se solo il ragazzo una volta all’anno vendemmiasse il Nebbiolo, o una volta nella vita ascendesse il Colle della Nasca, cedendo così al gioco di potere del genitore. Perché, e questo è per me il punto chiave del libro, tutte queste cose non sono concepite dal padre come gusti personali, e pertanto discutibili: «Come farti capire — scrive disperato — che non è la mia vita, ma è la vita degli uomini quella della quale io sono un così impacciato testimone?».
Dunque l’esperienza del padre interpreta niente di meno che «la vita degli uomini». Il ragazzo che la rifiuta quindi nega la condizione umana. Come potrebbero non sentirsi degli estranei i nostri figli, di fronte a tanta siderale distanza, a questa dicotomia umano/non umano? Invece di cercare succedanei estetici all’autorità etica cui abbiamo rinunciato, dovremmo piuttosto parlare con loro della verità. Non per convincerli della nostra, o ancor meno per piegarli alla nostra (il Sessantotto è stato davvero utile da questo punto di vista, anche se in Italia è durato troppo, dieci anni, ed è finito nel sangue di Aldo Moro).
L’educazione non si impartisce, è la libertà di una persona che incontra la libertà di un’altra. Ma se noi non abbiamo niente da dire sulla verità, di che cosa pretendiamo di parlare con i nostri figli? Come potranno cercare la loro verità, magari diversa, forse opposta, se noi ne abbiamo paura? Perché ci dovrebbero ascoltare mentre ci crogioliamo nei nostri riti di borghesi arrivati e progressisti, che non hanno più niente di cui stupirsi e più nessuna novità cui aprirsi e ai quali la verità non interessa più, perché il nostro pensiero si è fatto debole, debolissimo, quasi inesistente? Forse abbiamo paura della libertà dei nostri figli; temiamo che la usino male, ma non abbiamo niente da proporre in cambio. Forse, da «adulti politicizzati», qualche volta li odiamo persino; perché, come ha scritto Gustavo Pietropolli Charmet, rimproveriamo loro «di non avere nessuna intenzione di intristirsi per le stolide e appassite ragioni» per le quali abbiamo inutilmente sofferto noi. Forse gli alieni siamo noi.
Antonio Polito
CHI SONO GLI SDRAIATI? Inviato da giovannaalbi
Un padre si rivolge al figlio con toni accorati e descrive le abitudini indisciplinate di quel giovane, simbolo di tutta la gioventù che vive sdraiata, non chiudendo mai il cerchio e lasciando tutto aperto, dal frigorifero al barattolo di marmellata, dall’armadio alla porta della cucina, che si trova in un disordine desolante. Nichilismo è la parola che potrebbe sintetizzare questa condizione: nolontà, assenza di valori forti, come impegno, lavoro, disciplina, costruzione insomma della propria vita. Mentre questa avanza inesorabile con i suoi ritmi, la gioventù ha perso la cognizione del tempo e vanno in automatico le repliche di quei cartoni animati americani (i Griffin o Simpson) che dileggiano il consumismo, mentre proprio di consumismo è intrisa la vita dei giovani.Il padre ha in progetto un grande romanzo (La Grande Guerra Finale): un di battito generazionale in una realtà che a breve sarà costituita da una maggioranza di ultrasettantenni con pannolone e Alzheimer, immagina che Brenno Alzheimer, l’autore stesso, simpatizzi col nemico, i Giovani appunto, e trami per l’affermazione di questi ultimi: questa sarebbe l’unica soluzione per uscire dal degrado sociale nel quale viviamo. Il dato più preoccupante è l’assenza di tempo interiore, quello che la vita scandisce, mentre il figlio dorme stravaccato di giorno, ma in quella posa al padre sembra di percepire un sapore che lo richiama all’infanzia, quando era facile amarlo, quando tutto scorreva nel migliore dei modi. Ora è tutto più difficile : le stature sono appaiate, le voci somigliano, gli ingombri dei corpi sono gli stessi.
Poi l’autore ricorda in analessi la sua infanzia, la sua separazione dai grandi, mangiava separatamente col fratello, quella separazione era vissuta piacevolmente come un’esenzione degli obblighi dei grandi.
Desiderio del padre è che il figlio lo segua in una passeggiata sul Colle della Nasca, quello sul quale passeggiava giovane con suo padre, il Colle sarebbe un punto di incontro generazionale e sarebbe bello che il figlio lo superasse in questa passeggiata assumendo una posizione eretta, mentre lo sdraiato questa volta sarebbe Brenno Alzheimer, alias Michele Serra….
Un romanzo toccante
Freud ha detto che la cosa più impossibile per l’uomo è essere genitore; Serra sembra partire da questo assunto per abbattere però le palizzate che di solito si ergono tra le generazioni. In un popolo di vecchi gli sdraiati devono vincere: è l’unico modo per invertire la tendenza. Non si tratta di fare una guerra, si tratta di riconoscere con tenerezza,dedizione, amore profondo il mutamento del mondo. Serra non critica, non si erge a giudice, vuole solo accostarsi con toni toccanti, venati anche dal consueto humour, al mondo dei giovani. Ma l’ironia è forse la componente meno significativa del breve romanzo, toccante fino alle lacrime, per chi si è assunto il ruolo della genitorialità : un ruolo oggi quanto mai discusso, perché i giovani fanno davvero parte per se stessi, sono una realtà a se stante , in cui non vigono più gli ideali di un tempo, elemento rispetto al quale non c’è rimpianto, ma piena presa di coscienza dell’impotenza dei padri.Anche questo è totalmente freudiano: è proprio da questa consapevole accettazione che si può essere bravi genitori, con tutte le difficoltà del caso; facile e naturale è amare i propri figli da piccoli, il problema è dedicarsi a loro con tutta la pienezza dell’essere quando sono in adolescenza con i loro odori tipici: dai calzini puzzolenti alla ribellione esplicita, allo stare sdraiati invertendo i ritmi della natura. Ecco perché il padre vorrebbe portare il figlio su quel colle, per farlo riappropriare del suo sé profondo a contatto con la natura. La camminata su quel colle è un atto di amore dovuto di un padre verso il figlio e viceversa.
MICHELE SERRA PADRE
Il padre vive schizofrenicamente il suo rapporto con figlio, diviso tra ruolo materno che caldamente abbraccia e ruolo di padre che autoritariamente rimprovera; ma ora questo ruolo di padre è evidentemente in crisi perché siamo passati attraverso una rivoluzione copernicana e non si erano mai visti figli così tecnologici che vivono la tecnologia come un prolungamento di sé. Figli incollati alla TV e al computer, figli senza anima, figli che vivono autisticamente il loro “rapporto” col mondo. A questo ha, a parer mio, contribuito tutta una serie di trasmissioni televisive e cartoni animati nei quali i figli si sono imbozzolati chiudendosi al mondo. Il padre Serra, riportando la sua esperienza di padre, diventa il simbolo di quel genitore che, tra tenerezze , pianti, sofferenze e blandi rimproveri, e-voca il figlio fuori di quel bozzolo nel quale si è chiuso.
Michele Serra, caro figlio ti scrivo
per sgridarti un po’
Negli “Sdraiati” l’invettiva rabbiosa e ironica di un padre di sinistra contro l’indolenza delle nuove generazioni
Perché l’erede e i suoi coetanei rifiutano qualsiasi visione del mondo adulta? parlano per monosillabi o per protesi elettroniche? si svegliano ad ore indecenti sincronizzati con il fuso orario di Anchorage? vivono sdraiati e svogliati verso ogni dovere e fatica?
Papà Serra cerca risposte, oltre a levare lai. Colloquia con i professori, prendendo in giro se stesso e i parenti che sfilano nei corridoi scolastici; entra nei megastore delle felpe e del consumismo globale. Prova persino a coinvolgere il figlio, insieme all’amico, nel rito della vendemmia che stregava tanto i contadini al tempo di Botticelli quanto gli odierni adulti reduci di una sinistra svaporata, felici come pasque di cogliere acini in mezzo ettaro di vigna, levandosi all’alba per stupirsi con i colori dell’aurora, sudare e poi mangiare pane e salame in compagnia; ma il risultato è disastroso: quando i due «sdraiati» si svegliano indolenti e scazzati verso mezzogiorno chiedendo caffè per colazione ricevono reprimende dai grandi che, abbandonata l’indole libertaria, predicano rispetto per forme, orari, creanza. «A quest’ora qui si pranza», sentenziano stizziti, come avrebbe potuto dire Colette Rosselli alle giovani borghesi anni 60.
Ma per Serra che si dichiara «relativista etico» e che ha sempre cercato nell’educazione il consenso piuttosto che l’imposizione - non per pigrizia, né per debolezza, ma per naturale avversione al pensiero forte - non è il sintomo di una svolta autoritaria. Anzi, satirico e amaro al contempo, capisce quanto sia sciocco pensare che i figli preferiscano i filari d’uva all’iphone. La divergenza e il rifiuto son normali, quasi sacrosanti perché i giovani sono arrivati in un mondo troppo saccheggiato, e «pretendere di vedervi proseguire entusiasti lungo strade consumate da milioni di passi» sarebbe eccessivo.
Tutto il libro è scandito da uno strano mantra, prima suadente, poi convinto, implorante, fin minaccioso. Ogni dieci pagine il padre propone una gita al Colle della Nasca. «Dai, andiamoci insieme sarà stupendo», dice l’adulto ricordando quando c’era stato da bambino. Sicuro che mai l’eterno sdraiato, che fuma un pacchetto al giorno, che porta braghe col cavallo basso, scarpe larghe, avrà voglia e forza di inerpicarsi ai 3mila metri. Lui che pare sempre assente alle emozioni e così poco propenso alla fatica perché dovrebbe salire l’inutile colle? Già, perché? Il finale del libro fornirà una risposta di commovente bellezza a questa e tante altre domande che non riguardano più le scaramucce di Serra e di suo figlio senza nome. Perché su quel monte simbolico, da Abramo e Isacco in poi, ci saliamo tutti per sacrificare ruoli, compiti, convinzioni, e passarci il testimone nella staffetta della vita. E giunti in vetta, rispecchiandoci nell’ostilità dei figli, non possiamo che ammorbidirci, e persino perdonare le colpe dei nostri padri ricordando i figli che eravamo.
Anche Kafka, se si fosse riprodotto, avrebbe scritto una nuova lettera al padre, più indulgente, più sdraiata, conscio della parte che la natura ci obbliga (noi maschi) a interpretare sebbene sia arduo trovare un senso negli insegnamenti da tramandare in un mondo così insulso, feroce e irredimibile.