Università,
classifica migliori atenei del mondo: “Italia fuori dalle prime duecento”
Secondo il Times Higher Education University Ranking,
la società britannica che ogni anno stila la lista delle realtà più
qualificate, il nostro Paese non è all'altezza di molti degli standard
internazionali. Prima Trento in posizione 221, seguono a scendere Milano
Bicocca e Bologna di Luigi Spera
Insegnamento, ricerca, citazioni, contributo all’innovazione e prospettiva
internazionale: questi i cinque principali parametri per giudicare l’importanza
e la qualità di una università. E dall’indagine scientifica sui dati raccolti
proprio all’interno di questa macro-aree, la società britannica “Times Higher Education
University Ranking”, ogni anno stila la sua classifica dei migliori atenei del mondo. Una graduatoria di 400
istituzioni accademiche che condanna l’Italia a un ruolo di quasi assenza in
tema di formazione universitaria. Nel ranking relativo agli anni
2013-2014, che nei primi 10 posti conta ben otto università statunitensi e due
britanniche, gli atenei italiani ne escono con le ossa rotte. Prima classificata l’università
di Trento. Ma per incontrarla bisogna scendere fino alla posizione 221.
Un numero inclemente che non dovrebbe però sorprendere quanti quotidianamente
denunciano il ritardo italiano in quest’ambito e la profonda incapacità nel
migliorare gli standard, soprattutto in termini di contributo all’innovazione e
ricerca. Voce quest’ultima che negli ultimi anni ha conosciuto solo feroci
tagli. Il declino italiano
è evidente: solo 15 gli atenei presenti nelle prime 400 posizioni.
A condannare gli atenei italiani è anche la particolare formula utilizzata
per una valutazione scientifica e i parametri utilizzati. I criteri muovono lungo delle
direttrici principali che rappresentano le missioni fondamentali delle
università: l’insegnamento, la ricerca, il trasferimento di conoscenze e la
visione internazionale. Tredici gli indicatori di performance,
raggruppati in cinque aree. L’insegnamento, valuta l’ambiente di apprendimento
e rappresenta il 30 per cento del punteggio della classifica generale. In
questa categoria si impiegano cinque indicatori di performance. Seconda macro-area
quella relativa alla ricerca. Anche questa categoria che rappresenta il
30 per cento del totale si compone di tre indicatori. Il più importante, con un
coefficiente del 18 per cento, riguarda la reputazione di una università in
quell’ambito. Ma cruciale per lo sviluppo della ricerca di livello mondiale è
pure il reddito. È dai fondi investiti che dipende gran parte della
‘concorrenza’ e dei risultati. Questa voce ha un valore del 6%. Tanto quanto il
volume: la misura di quanti articoli sono pubblicati nelle riviste accademiche
indicizzate. Collegata in un certo senso a questa voce, anche quella relativa
alle citazioni: vale da solo il 30% del totale e guarda al ruolo delle
università nella diffusione di nuove conoscenze e idee. Molto importante è anche l’area della
Prospettiva internazionale, che divide il coefficiente del 7,5% tra le voci
persone e ricerca. Questa categoria analizza la diversità nel campus la
capacità degli accademici di collaborare con i colleghi internazionali su
progetti di ricerca. La capacità poi di una università di attrarre studenti e
laureati provenienti da tutto il pianeta è la chiave per il suo successo.
Ultima voce, quella relativa al reddito di settore, che misura la
capacità di un universitario di aiutare l’industria con innovazioni. Missione
ritenuta fondamentale nello scenario mondiale.
Scorrendo la classifica, salta subito all’occhio lo strapotere anglosassone: non solo Stati Uniti, ma anche
Gran Bretagna, Canada e Australia. Ciò che emerge chiaramente però è la
presenza di molte università, sebbene non nei primissimi posti, di paesi come
Cina, India, Hong Kong, Sud Corea e altri giganti asiatici. Paesi dove forte è
l’investimento sulla ricerca e il reddito di settore, cioè l’interazione
tra università a aziende. Nelle nazioni in via di sviluppo questo
rapporto è molto stretto. Spesso poi le università hanno corsi in inglese e
possono attrarre anche insegnanti di facoltose università anglosassoni. Tutto
ciò che di fatto manca all’Italia, così come ad altri paesi d’Europa come
Francia e Spagna. Ex potenze destinate a cedere il passo anche sulla cultura.