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Il duello New York Times-Twitter

È dunque colpa dei nostri genitori che non ci hanno regalato il Commodore 64 se il codice Html ci pare arabo? O siamo noi stesse ad escluderci dalla partita?


Una domanda rimbalza da San Francisco a Washington. La Silicon Valley è un club per soli uomini? Quesiti che da noi vengono liquidati come chiacchiere da femministe. Ma negli Usa il dibattito sulla gender equality nel Tech si è riacceso, complice un vivace scambio tra la giornalista del New York Times Clair Caine Miller e il Ceo di Twitter Dick Costolo. All’indomani dell’avvio delle procedure per lo sbarco a Wall Street di Twitter, il quotidiano mette il dito nella piaga. «Il board di Twitter? Tutti uomini (bianchi). Gli investitori? Idem. E stesso discorso per gli ad. Con l’eccezione di Vijaya Gadde, unica donna in consiglio di amministrazione», ha scritto Miller. «È la mafia di Twitter», ha rincarato la dose Vivek Wadhwa, ricercatore allo Stanford Rock Center for Corporate Governance. Costolo, d’altro canto, non si è scomposto. Ha alzato il sopracciglio e ha risposto: «Non voglio gestire la questione come se stessi solo spuntando una casella». Come dire: «Se non ci sono donne adatte, non è un mio problema». Una provocazione cui Miller ha replicato per le rime, pubblicando un elenco di 25 donne attrezzate per stare nel board di Twitter, tra cui Indra Nooyi di Pepsi, Renée James di Intel e perfino la sceneggiatrice Shonda Rhimes.
La maggior parte delle americane, a differenza delle europee, ha capito da tempo che la questione riguarda tutti. Il focus del dibattito non sono le quote rosa o i consigli d’amministrazione. Si parla di meritocrazia. Le donne, secondo il Pew Research Center, usano i social network esattamente quanto gli uomini, se non di più. Eppure, per Catalyst, sono solo il 5,7 per cento degli impiegati nel settore. Poche, pochissime, lavorano come programmatrici. Celebri divennero le foto pubblicate dall’Atlantic , scattate alla Worldwide Developers Conference, con il bagno degli uomini preso d’assalto mentre davanti alla toilette delle signore non c’era nessuno. Stereotipi di genere? Che il tech fosse un settore per nerd, brufolosi e un po’ dissociati non è un segreto. Già nel lontano 2006 Nancy Hafkin e Sophia Huyer scrissero Cinderella or Cyberella? e Randi Zuckerberg, sorella di Mark, nel 2010 confessò: «A me regalavano le bambole, a lui i videogame».
È dunque colpa dei nostri genitori che non ci hanno regalato il Commodore 64 se il codice Html ci pare arabo? O siamo noi stesse ad escluderci dalla partita? A leggere i dati, è difficile trovare una risposta. Per Christianne Corbett, co-autrice del rapporto Why So Few? Women in Science, Technology, Engineering and Math , gli stereotipi di genere si formano a 4 anni. Le bambine imparano che materie come l’ingegneria e la tecnologia sono prettamente maschili, mentre le femmine sono più portate, per esempio, all’insegnamento nelle scuole. Secondo il Dipartimento Usa per la Pubblica Istruzione, molto dipende dall’autopercezione delle ragazze rispetto alle loro abilità matematiche e scientifiche. Risultato, negli Usa solo il 2 per cento delle donne si diploma in informatica, ma se si considera il dato nel suo insieme le studentesse di corsi scientifici sono il 57,1 per cento. In Europa la percentuale di donne assunte nel settore è una su cento mentre il tasso di diplomate è al 20 per cento. E in Italia? La percentuale di studentesse è tra le più alte al mondo: ben il 50,3 per cento rispetto a una media Ue del 37,5. C’è poco da gioire, tuttavia. A fronte di grandi eccellenze, molte laureate finiscono per fare altro. Regola che vale anche per gli Usa. Se infatti le donne nella Silicon Valley ci sono, non sono tra quelle che inventano e creano. Marissa Mayer e Sheryl Sandberg per lo più amministrano, scrivono libri, si mettono in posa per Vogue e fanno pr. Ma non hanno inventato Facebook, algoritmi e piattaforme. E se si va a scorrere la lista del Time dei 40 personaggi più influenti a livello tecnologico si scopre che le donne sono il 2,75% del totale.
Ci vuole qualcuna come Ada Lovelace, prima programmatrice della storia. Ce ne vogliono cento, duecento per dimostrare a tutti quelli che dicono che le donne non sono portate che hanno torto. Perché non c’è peggior cosa di dover lavorare in un ambiente che ti respinge. Ma se il potere adesso passa anche dalla Silicon Valley, è ora che le donne vadano a prendersi il posto che si meritano. Alla faccia della fila di nerd davanti al bagno.